"Non sono io che amate, ma chi mi abita" (Roger Munier, “Il meno del mondo”, 1982). L’analogia dell'abitare uno spazio e del vivere l'Arte di Raffaele Barbuto.
L’impatto è fuorviante, rimanda a un grande cartellone pubblicitario colorato e stratificato dai passaggi del tempo. Ma poi, la grande opera di Barbuto, affrontato il primo scrutare approfondito, è un macro-mondo di linguaggi, frammenti, forme e materiali che, sfogliandolo con lo sguardo, mostra anatomie, espressioni e gesti che richiamano elementi naturali, come foglie e dettagli di forme. O come curve dinamiche di paesaggi e movimenti del pensiero.
"Non si ama un luogo ma chi lo abita", scrive Roger Munier. La casa è fatta da chi l’ha creata, vissuta, amata, odiata. La casa è lo spazio abitativo più intimo, raccolto, misterioso e personale: rappresenta quell’unico momento di pausa e di calore. Le pareti domestiche sono infatti il rifugio della vita passata, presente, o che verrà. L’opera di Barbuto realizzata per Ginger House parte proprio da qui, come sottolinea il titolo Non sono io che amate, ma chi mi abita. L’artista, attraverso la sua grande opera dalle tante sfaccettature, realizzata appositamente per lo spazio della casa di Porta Venezia, indica che le tracce che lasciamo nello spazio abitato rappresentano l’essenza viva di quel luogo. L’uomo che l’ha vissuta è la sua casa. Le pareti non contano, ciò che importa è il racconto delle storie consumate lì dentro, delle memorie, dei dolori, e delle gioie. Questo è casa.